Ad oggi, la chirurgia bariatrica si distingue rispetto ad altri interventi, nella capacità di indurre una remissione a lungo termine del diabete . Nonostante i dati disponibili indicano che i tassi di remissione, a 5 anni dall’intervento, raggiungono un’ampia porzione di pazienti (53-60%), per molti di loro, la patologia rimane anche dopo chirurgia. Dati gli alti rischi e gli alti costi associati a questo tipo di chirurgia (che è sempre più diffusa), vi è la necessità di identificare strumenti prognostici in grado di predire gli outcomes al lungo termine, specialmente quelli relativi alle patologie obesità-correlate, come il diabete. Basandosi sulle caratteristiche del paziente e tenendo conto anche delle terapie più recenti, il sistema di scoring Ad-DiaRem – una versione modificata del precedente sistema DiaRem – permette di predire meglio che gli altri strumenti disponibili, la remissione del diabete (RD) a 5 anni dopo l’intervento di bypass gastrico Roux-en-Y (RYGB), con risultati validi anche alla gastrectomia a manica (SG) e nel bendaggio gastrico (GB). Sono queste in estrema sintesi le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista Obesity Surgery, da Dror Dicker della Tel Aviv University (Israele) e colleghi.

Sono oggi disponibili strumenti predittivi, come i punteggi ABCD e DiaRem pensati per prevedere la RD a 1 anno dopo procedura RYGB. “Il punteggio DiaRem si è rivelato migliore di altri ma mancano dati chiari sulle sue performance a lungo termine e in interventi diversi dal RYGB” spiegano gli autori, che hanno deciso di valutare il potere predittivo per RD del punteggio DiaRem e della sua versione aggiornata Ad-DiaRem a 2 e a 5 anni dall’intervento, allargando lo sguardo anche a gastrectomia a manica e bendaggio gastrico. Tra i 1.459 pazienti analizzati per i quali erano disponibili dati sullo status di diabete a 5 anni, il 53,6% mostrava remissione del diabete di tipo 2. I dati dimostrano che rispetto alla versione originale di DiaRem, la versione aggiornata permette di migliorare leggermente la precisione nel predire la RD a 2 e 5 anni post-intervento. “La capacità predittiva di Ad-DiaRem è buona e si adatta bene in particolare a interventi RYBG e SG, un po’ meno a GB” aggiungono gli autori che poi concludono: “Se questi risultati saranno confermati in altre coorti, Ad-DiaRem potrebbe rappresentare uno strumento utile verso un trattamento più personalizzato per i pazienti diabetici obesi, che si sottopongono a chirurgia bariatrica”.

Gli attuali strumenti di predizione della remissione del diabete di tipo 2 dopo chirurgia bariatrica forniscono risultati affidabili anche sul lungo periodo (fino a 5 anni) e per interventi diversi dal bypass gastrico Roux-en-Y.

Strumenti sempre più precisi per predire la remissione del diabete dopo intervento bariatrico.

TYPE-1-DIABETES

TYPE-2-DIABETES

DIABETES

Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Nature Medicine, la metformina migliora la disfunzione metabolica, inclusa l’iperglicemia, agendo anche attraverso l’asse Bacteroides fragilis –acido glicoursodesossicolico (GUDCA) – recettore farnesoide X intestinale (FXR). Come si legge in un editoriale di commento, la metformina è stata introdotta in clinica per il trattamento del diabete già nel 1957 e per decenni è stata utilizzata per migliorare la sensibilità insulinica dei pazienti senza che il meccanismo d’azione fosse noto nel dettaglio. Il recente studio ha fatto luce su tali meccanismi, andando ad investigare l’impatto del microbiota intestinale, gli acidi biliari e i relativi target, sulla regolazione del metabolismo glicemico in individui con T2DM e topi obesi.

Nonostante diversi studi si siano già occupati di evidenziare l’associazione fra microbiota e trattamento con metformina, non sono ancora state chiarite le entità dei cambiamenti nel microbiota intestinale, né soprattutto quale siano le specie di batteri coinvolte. Attraverso analisi metagenomiche e metabolomiche di campioni prelevati da soggetti con nuova diagnosi di diabete di tipo 2 e trattati con metformina per 3 giorni, gli esperti hanno osservato a livello intestinale una riduzione dell’abbondanza di Bacteroides fragilis e un incremento dell’acido biliare GUDCA. 
 Tali cambiamenti sono stati accompagnati da una inibizione delle vie di segnalazione di FXR. Successivi esperimenti condotti in vitro e in modelli murini hanno inoltre mostrato che GUDCA rappresenta un antagonista di FXR intestinale ed è stato in grado di migliorare numerosi endpoint metabolici nei topi con obesità franca. Dall’analisi è emerso infine un dato inatteso sul ruolo delle chinasi attivate da AMP (AMPK), storicamente ritenute coinvolte nel meccanismo di azione della metformina. Sembra infatti che il farmaco sia in grado di inibire la via di segnalazione di FXR attraverso il microbiota intestinale in maniera indipendente da AMPK, sottolineando che l’idea di considerare AMPK come bersaglio terapeutico della metformina lascia spazio al dubbio e che è possibile prendere in considerazione altre strategie per migliorare la sensibilità insulinica.

Un recente studio svela nuovi dettagli sul meccanismo d’azione della metformina, aprendo la strada anche a nuove possibili strategie terapeutiche per migliorare la sensibilità insulinica nei pazienti diabetici.

L’efficacia della metformina passa anche da microbiota e acidi biliari

Modificare i geni metabolici del feto è possibile e gli effetti di queste modifiche del DNA si mantengono stabili dopo la nascita. “Con questo tipo di intervento genetico in utero è potenzialmente possibile curare già a livello prenatale alcune patologie genetiche che presentano alta mortalità e morbilità prima della nascita o subito dopo il parto” spiega Avery Rossidis, del Center for Fetal Research al Children’s Hospital di Philadelphia (Stati Uniti), primo nome dello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine. Per raggiungere il traguardo prefissato, Rossidis e colleghi hanno deciso di utilizzare le tecniche di editing genetico (CRISPR–Cas9 e base 3 editor) che negli ultimi anni hanno raggiunto livelli di precisione estremamente elevati, utilizzando per gli esperimenti vettori virali ad hoc. “Il feto in via di sviluppo è particolarmente adatto all’utilizzo di queste tecniche soprattutto per la sua immaturità dal punto di vista immunologico che permette di evitare reazioni immuni contro il vettore virale o il transgene introdotto” spiegano i ricercatori, che poi aggiungono: “Inoltre il feto è piccolo e le sue cellule sono in fase di proliferazione molto spinta, due condizioni che ottimizzano l’efficacia dell’editing”.

Nel corso dello studio le tecniche di editing genetico sono state utilizzate in particolare per modificare il gene Pcsk9, legato ai livelli di colesterolo e al rischio cardiovascolare, e il gene Hpd, associato invece alla tirosinemia ereditaria di tipo 1 (HT1).
In entrambi i casi, i risultati hanno dimostrato il successo dell’editing in utero di geni metabolici che ha portato a una riduzione dei livelli di colesterolo (nel caso di modifiche a Pcsk9) e alla eliminazione del fenotipo HT1 (nel caso di editing su Hpd), con risultati mantenuti anche dopo la nascita. “Il nostro è uno studio proof-of concept, che dimostra le potenzialità di questa tecnica come nuovo approccio terapeutico per molte patologie genetiche ” affermano gli autori, che poi concludono: “Servono ora studi per definire meglio strategie più sicure da poter utilizzare in futuro pe portare questi risultati anche in clinica”.

Utilizzando le più moderne tecniche di editing genetico, un gruppo di ricerca statunitense ha dimostrato che è possibile modificare in utero alcuni geni metabolici, aprendo così la strada a possibili terapie prenatali anche per malattie metaboliche dell’uomo

Correzione intrauterina dei geni metabolici: una speranza per il diabete?

Da tempo sospettata di avere un ruolo nell’insorgenza del diabete, la carenza di vitamina D può oggi essere considerata a tutti gli effetti un fattore di rischio per questa malattia. Lo ha dimostrato un recente studio pubblicato su PLoS ONE e portato a termine da un gruppo di ricerca che ha visto la collaborazione di Corea del Sud e Stati Uniti; l’intento dello studio era infatti esaminare se basse concentrazioni di vitamina D [ 25(OH)D oppure 1,25(OH)2 D] sono associate a insorgenza di diabete o pre-diabete in uno studio prospettico di coorte in un periodo di follow-up complessivo di 12 anni. 
 La ricerca è stata effettuata su una coorte di 903 soggetti caucasici, residenti nel Sud della California, con un’età media di 74 anni, arruolati nello studio osservazionale Lipid Research Clinics Prevalence Study. 
 Sia per questioni climatiche che socio-economiche ed educative, il campione di soggetti in studio presentava la più alta concentrazione plasmatica mediana di vitamina D fra tutte le popolazioni considerate in altri studi sull’ argomento. Per essere arruolati nello studio, tutti i 903 non dovevano presentare al basale diagnosi di diabete né di prediabete. Nel corso delle visite di follow-up sono stati valutati i livelli plasmatici di 25-idrossi vitamina D [25(OH)D] dei soggetti. Nei successivi 12 anni di follow-up i ricercatori hanno monitorato la coorte per rilevare l’eventuale insorgenza di prediabete o di diabete mellito.

L’analisi dei dati raccolti ha evidenziato come nei soggetti con elevati livelli di vitamina D [25(OH)D &gt;30 ng/ml) l’incidenza di diabete sia stata solo 1/3 di quella riscontrata nei soggetti con livelli più bassi. Lo stesso tipo di associazione, sebbene più debole, è stata rilevata anche per quanto riguarda l’incidenza di prediabete. 
 Questa relazione inversa rimaneva consistente anche nei soggetti appartenenti alle tradizionali categorie ad alto rischio per insorgenza di diabete e con stabili fattori di rischio come l’obesità e la scarsa attività fisica. 
 Dallo studio è emersa un’evidente relazione inversa dose-effetto tra livelli ematici di 25(OH)D e rischio di diabete, a conferma di un possibile effetto protettivo della vitamina. Secondo gli autori, questi risultati hanno una plausibilità biologica, in quanto è stato dimostrato in diversi modelli animali che la vitamina D può stimolare la produzione di insulina dalle cellule beta, proteggendole al contempo da infiammazione e apoptosi; di contro, l’esatto meccanismo tramite cui la vitamina D esercita un effetto protettivo nei confronti dell’insorgenza di diabete rimane poco chiaro. 
 I prossimi studi sull’argomento avranno l’importante compito di valutare se l’integrazione alimentare di vitamina D possa diventare un efficace strumento di prevenzione del diabete.

Carenza di vitamina D: un fattore di rischio del DMT2

L’ultimo degli studi sull’argomento, infatti, ha dimostrato che il microbiota può persino influenzare il consumo energetico e l’accumulo di grasso dell’ospite, risultando connesso anche alla regolazione del profilo glicemico e lipidico (trigliceridi).
Lo studio in questione è stato effettuato da ricercatori dell’Università di Kumamoto, in Giappone. Gli autori hanno analizzato l’influenza della disbiosi causata dalla somministrazione di antibiotici sul metabolismo degli zuccheri e dei lipidi. In un modello sperimentale di topo disbiotico, trattato con antibiotici per 5 giorni, sono stati riscontrati livelli di glicemia e di trigliceridi ridotti rispetto ai topi non trattati (-64% e -43%, rispettivamente)

Nel modello sperimentale è stata osservata anche una diminuzione dei batteri intestinali produttori di acidi biliari secondari (acido litocolico e desossicolico), con conseguente riduzione delle concentrazioni di queste sostanze. L’integrazione con acidi biliari secondari contestualmente alla somministrazione di antibiotici si è dimostrata in grado di ripristinare i livelli ematici di glucosio e di trigliceridi. 
 L’analisi proteomica quantitativa ha inoltre consentito di rilevare, nel fegato dei topi disbiotici, variazioni dei livelli di espressione delle proteine coinvolte nel metabolismo del glicogeno e nella biosintesi del colesterolo e degli acidi biliari; variazioni ripristinate mediante la supplementazione con acidi biliari secondari. 
 Lo studio dimostra che gli acidi biliari secondari prodotti dagli enterobatteri agiscono come regolatori dell’omeostasi del glucosio, dei livelli di Trigliceridi e il metabolismo dei farmaci nell’ospite. Inoltre i risultati dello studio suggeriscono accortezza nell’uso degli antibiotici che influenzano gli acidi grassi secondari prodotti dagli enterobatteri, a causa della loro potenziale interazione con farmaci antidiabetici e anti-lipidemici. È prevedibile che in futuro essi rappresenteranno un possibile target per la prevenzione e il trattamento di malattie metaboliche come il diabete o la dislipidemia.

Oltre 100 trilioni di microrganismi provenienti da circa 1.000 specie diverse popolano l’intestino umano formando il microbiota, un vero e proprio ecosistema il cui ruolo nel mantenere la salute umana è sempre più riconosciuto.

Il microbiota intestinale può influenzare la glicemia e la lipidemia

<h2>Dieta chetogenica: un potenziale regime dietetico per favorire l'eutimia nei pazienti con disturbi depressivi maggiori</h2>
FOCUS
Questo articolo è focalizzato principalmente sugli effetti del regime dietetico chetogenico nell'alleviare i sintomi depressivi garantendo l'equilibrio tra GABA e glutammato al fine di mantenere l'eutimia nei pazienti con disturbi depressivi maggiori (MDD).

Messaggi chiave
<ul>
 <li>I medici e gli operatori sanitari devono essere incoraggiati a prescrivere e a valutare la dieta chetogenica come approccio da implementare e come rimedio aggiuntivo alla psicoterapia e alla terapia farmacologica per trattare i MDD e favorire l'eutimia.</li>
 <li>I cambiamenti della dieta potrebbero essere potenzialmente utilizzati per migliorare la salute mentale dei pazienti con malattie psichiatriche.</li>
 <li>Esiste una stretta associazione tra dieta chetogenica e aumento del rapporto GABA/glutammato, che può rivelarsi utile in virtù delle sue caratteristiche antiepilettiche.</li>
</ul>

Rilevanza di questi dati
<ul>
 <li>Il ruolo della nutrizione nella salute mentale viene sempre più riconosciuto. Nell'attuale popolazione sono diffusi regimi nutrizionali inadeguati e una scarsa conoscenza in materia di nutrizione; inoltre, il valore nutrizionale degli alimenti è quasi alterato dalla trasformazione degli alimenti, portando a patologie croniche.</li>
 <li>Lo squilibrio dell'apporto nutrizionale può influenzare il microbiota intestinale ed essere quindi associato alla gravità degli episodi depressivi tramite l'asse intestino-cervello. Inoltre, i modulatori GABA, come le benzodiazepine, sono prescritti per ridurre i sintomi depressivi, ma il loro impiego deve essere limitato.</li>
 <li>In questo caso, un'opzione alternativa può essere l'aderenza a una dieta chetogenica che non solo aumenti i livelli di GABA nei disturbi affettivi, ma favorisca anche la perdita di peso, il trattamento dell'epilessia refrattaria e l'equilibrio dei livelli glicemici.</li>
</ul>

Aspetti principali
<ul>
 <li>Dieta per disturbi affettivi: 
 <ul>
 <li>Le linee guida dell'American Psychiatry Association e dell'American Heart Association supportano l'aumento dell'apporto di omega 3 per i disturbi mentali mediante il consumo di almeno 1 g di acido eicosapentaenoico + acido docosaesaenoico al giorno. L'uso di formulazioni a base di omega 3 può contribuire al mantenimento della stabilità neuronale e al corretto funzionamento dei neurotrasmettitori, in particolare serotonina e dopamina.</li>
 <li>Il triptofano è un amminoacido essenziale e precursore della sintesi della serotonina cerebrale. Le variazioni del triptofano plasmatico possono influenzare i livelli di serotonina cerebrale. Inoltre, è stata osservata una recidiva della depressione a seguito di una rapida deplezione del triptofano.</li>
 <li>Le vitamine del gruppo B (B6, B9 e B12), come cofattori, sono responsabili di numerose funzioni fisiologiche, in particolare quelle rilevanti per la salute mentale.</li>
 <li>Lo zinco, il magnesio e il selenio possono esercitare effetti sull'attività del fattore neurotrofico corticale derivato dal cervello</li>
 </ul></li>
</ul>

<ul>
 <li>Intervento mirato sul sistema GABA: 
 <ul>
 <li>La neurotrasmissione GABAergica svolge un ruolo significativo nel controllo della neurogenesi e della maturazione neurale.</li>
 <li>Il GABA è responsabile del rilascio del cortisolo e dell'ormone rilasciante corticotropina durante situazioni di stress, il che sostiene anche l'ipotesi che l'alterata trasmissione del GABA possa aumentare il rischio di sviluppare depressione e ansia.</li>
 <li>Gli attuali antidepressivi aumentano la trasmissione monoaminergica, la quale a sua volta rafforza la trasmissione GABAergica, mentre ridotte concentrazioni di GABA si osservano normalmente nei MDD.</li>
 <li>Per quanto riguarda l'asse intestino-cervello, alcune specie di Lactobacilli e Bifidobacteria sono in grado di sintetizzare il GABA. Lactobacillus rhamnosus ha un potenziale terapeutico nella mediazione della depressione e dei comportamenti simili all'ansia per effetto della modulazione dell'espressione dei recettori corticali del GABA.</li>
 </ul></li>
</ul>

<ul>
 <li>Dieta chetogenica: 
 <ul>
 <li>Una dieta chetogenica è strettamente associata a un aumento del rapporto GABA/glutammato, che può rivelarsi utile in virtù delle sue caratteristiche antiepilettiche, mentre ridotti livelli di GABA hanno un impatto positivo sui disturbi di depressione e ansia.</li>
 <li>La chetosi mima il digiuno: un caso studio ha riportato che una riduzione dell'apporto calorico è risultato associato all'induzione del digiuno, portando a umore elevato e a riduzione di rabbia, confusione, eccessiva tensione e sintomi depressivi generali.</li>
 <li>La dieta chetogenica altera e migliora il microbiota intestinale a tutte le età; è quindi importante per mantenere un'adeguata salute dell'intestino introducendo cibi e bevande fermentati.</li>
 </ul></li>
</ul>

Limiti
<ul>
 <li>I pazienti con sintomi depressivi hanno una ridotta capacità e motivazione a cucinare e sono meno propensi a seguire il loro regime dietetico; inoltre un regime dietetico chetogenico limiterebbe o escluderebbe alimenti ad alto contenuto di carboidrati.</li>
 <li>Questo tipo di dieta avrebbe un impatto negativo sul profilo lipidico.</li>
 <li>La combinazione di carboidrati raffinati e zuccheri semplici con prodotti chetogenici può aggravare lo stato di chetosi.</li>
</ul>

ANXIETY

NEUROLOGY

Dieta chetogenica: un potenziale regime dietetico per favorire l'eutimia nei pazienti con disturbi depressivi maggiori

Un recente studio svedese ha però proposto una classificazione delle forme di diabete del tutto nuova, basata su 6 parametri clinici di semplice valutazione, che possono essere parametrati con una singola visita e non influenzano la terapia: l’età alla diagnosi, l’indice di massa corporea, la presenza o assenza di anticorpi per la glutammato decarbossilasi (per identificare le forme autoimmuni), l’emoglobina glicata, l’indice HOMA2-B (per valutare la funzione beta cellulare) e l’indice HOMA2-IR (per valutare l’insulino-resistenza).

I ricercatori svedesi hanno misurato questi parametri in una coorte di quasi 9000 pazienti con diabete di nuova diagnosi, riuscendo , in base a questi criteri, ad identificare 5 cluster ben distinti: il diabete autoimmune grave (SAID): pazienti che mostravano basso BMI, bassa HOMA-2B, alti livelli di glicata, e GADA positivi; il diabete grave con deficit insulinico (SIDD): pazienti con basso BMI, alti livelli di glicata, GADA negativi; il diabete grave insulino-resistente (SIRD): pazienti con il più alto livello di HOMA-IR e HOMA-2B; il diabete lieve associato a obesità (MOD): pazienti con il più alto BMI e buona prognosi. E il diabete lieve associato all’età (MARD)che comprendeva la maggior parte dei pazienti.
Oltre ad essere caratterizzati da diverse combinazioni dei 6 parametri clinici valutati, i 5 fenotipi diabetici sono risultati differenti anche nel rischio di complicanze. Per esempio, il fenotipo SIDD è quello che presenta il maggior rischio di retinopatia, il fenotipo SIRD, in cui nonostante la glicemia fosse similare a quella dei pazienti degli altri gruppi, era quello con rischio più elevato di complicanze renali e con la maggior prevalenza di steatosi epatica non alcolica, e così via.
Secondo gli autori, questo studio rappresenta un importante passo avanti rispetto al classico approccio eziologico alla classificazione del diabete, in direzione di una medicina personalizzata.
Avere la possibilità di individuare sottogruppi di pazienti con particolari caratteristiche e rischi può contribuire, infatti, ad ottimizzare il trattamento e gli esiti clinici.

Il diabete mellito è una malattia eterogenea, nella quale l’iperglicemia può avere diverse origini. Già nel 1936 si riconobbe questa eterogeneità, distinguendo le 2 forme classiche di diabete: il tipo 1 e il tipo 2. Oggi si sa, però, che esistono anche forme rare di diabete, spesso di origine genetica, come il diabete giovanile a esordio nella maturità (MODY) e il diabete neonatale.

Diabete mellito di tipo 1 e 2: e se invece fossero 5?

Un gruppo di ricerca giapponese ha per la prima volta misurato gli effetti negativi della variabilità glicemica sulla conducibilità dei nervi periferici. Era già noto in precedenza che esistesse una correlazione tra variabilità glicemica e neuropatia diabetica; tuttavia, negli studi che avevano svelato l’associazione, questa comune complicanza del diabete era stata valutata in base ai sintomi dei pazienti e con un esame neurologico, e non misurata in modo quantitativo con lo studio della conduzione nervosa (NCS). La NCS consente di rilevare la presenza di disfunzione nervosa periferica in fase precoce, quando la sintomatologia tipica (intorpidimento e dolore) non è ancora presente e permette di valutare in modo quantitativo la neuropatia. Ed è proprio questa tecnica che è stata utilizzata nello studio giapponese, effettuato su 27 pazienti ambulatoriali con diabete di tipo 2 e 13 con diabete di tipo 1, presso il Shuuwa General Hospital di Tokio. I soggetti arruolati hanno dovuto indossare per 7 giorni un dispositivo portatile per il monitoraggio continuo delle concentrazioni di glucosio nei fluidi interstiziali (CGM).

Inoltre, hanno dovuto misurare la propria glicemia 4 volte al giorno, mediante automonitoraggio, in modo che le letture del dispositivo portatile potessero essere convertite in valori glicemici. A partire dai dati raccolti si è calcolata l’ampiezza media delle escursioni glicemiche (MAGE), un indice di variabilità glicemica molto utilizzato. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a un approfondito NCS, effettuato sui nervi mediano, tibiale, surale e plantare mediale. Dall’analisi dei risultati è emersa un’associazione statisticamente significativa tra MAGE e potenziale d’azione del nervo plantare mediale; più di metà (67,5%) dei pazienti avevano anormalità di conduzione al nervo plantare mediano e quindi una DNP in stadio precoce. Questa associazione è rimasta significativa anche dopo un’analisi di regressione lineare multipla, effettuata per eliminare i fattori confondenti.
Gli autori hanno quindi concluso che la variabilità glicemica può essere considerata un fattore di rischio indipendente di neuropatia diabetica. Ci sarebbe bisogno di indagare quest’associazione con studi ulteriori su un campione di pazienti più ampio e con complicanze diabetiche di differente gravità.

La neuropatia diabetica periferica (DNP) è una delle più comuni complicanze microvascolari del diabete. Un recente studio giapponese è riuscito a dimostrarne, per la prima volta in modo quantitativo, l’associazione con la variabilità glicemica.

Misurato per la prima volta l’impatto della variabilità glicemica sui nervi periferici

I processi biologici influenzati da regolari cambiamenti dell’ambiente circostante prendono il nome di ritmi circadiani.1&nbsp;Tali processi, come ad esempio i ritmi ormonali, sonno-veglia, sociali, alimentari e di attività, fanno capo a un sistema di regolazione endogeno sito nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo e nella ghiandola pineale, la cui funzione persiste anche in assenza di stimoli esterni. I ritmi circadiani presentano numerosi correlati dal punto di vista fisiologico e biochimico, che a loro volta si traducono in comportamenti dotati di un ruolo significativo nel determinare lo stato di salute globale. In particolare, le alterazioni di tali processi si associano ad aumentato rischio di sviluppare disturbi mentali, influendo su domini come quelli cognitivo e sociale, ma anche sulla regolazione affettiva e sull’umore.2&nbsp;Il ruolo dei ritmi circadiani nella patogenesi e nella presentazione clinica dei disturbi dell’umore è stato infatti ampiamente dimostrato,3,4&nbsp;rappresentando una delle aree di compromissione maggiormente considerate nello studio dei disturbi depressivi (DD).
Le correlazioni cliniche e l’evidenza di meccanismi molecolari comuni ai disturbi dei ritmi circadiani e ai DD, dimostrate ad esempio dall’avanzamento di fase dei ritmi biologici indotto dagli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI), hanno determinato la formulazione di diverse ipotesi cronobiologiche in relazione all’eziopatogenesi dei DD.5,6&nbsp;Numerose scuole di pensiero attribuiscono un ruolo causale alle alterazioni circadiane nello sviluppo dei DD, ipotizzando che disfunzioni del sistema immunitario, dei glucocorticoidi e della sintesi di monoammine possano fungere da mediatori di questa relazione.7&nbsp;Tuttavia, i disturbi dei ritmi circadiani e i DD potrebbero anche presentare meccanismi eziopatogenetici comuni che agiscono con un effetto pleiotropico nel determinare entrambi, in assenza di un diretto nesso causale.8
Le alterazioni dei ritmi circadiani dominano il quadro clinico dei DD in una significativa percentuale di casi e possono preludere alla comparsa di nuovi episodi quando i DD assumono un andamento ricorrente.9&nbsp;Le alterazioni circadiane nei soggetti con DD si associano a un quadro clinico più grave, maggior prevalenza di sintomi residuali e inter-episodici, più elevato rischio di suicidio e peggior risposta al trattamento con antidepressivi, rappresentando inoltre un fattore di rischio per lo sviluppo di depressione nei soggetti sani.10-13&nbsp;I disturbi del sonno mostrano prevalenza pari al 50-90% nei soggetti affetti da DD,14&nbsp;manifestandosi come insonnia o ipersonnia,15,16&nbsp;enumerate anche tra i criteri per la diagnosi di episodio depressivo maggiore secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).17&nbsp;L’insonnia assume prevalenti caratteristiche di tipo centrale e terminale.18&nbsp;Gli studi di polisonnografia hanno inoltre evidenziato la presenza di alterazioni dell’architettura del sonno nei DD, come dimostrato da una ridotta latenza della fase rapid eye movement (REM).19&nbsp;L’avanzamento di fase che le alterazioni dell’architettura del sonno sottendono viene confermato anche da variazioni di altri ritmi biologici che presentano andamento circadiano, in particolare la secrezione di ormoni quali cortisolo o melatonina e la temperatura corporea.20&nbsp;Tali ritmi mostrano nei DD anche una significativa variazione della propria ampiezza, che nella maggior parte dei casi, seppur non in tutti, risulta ridotta.21&nbsp;I livelli di attività, secondo quanto definito dal cronotipo, appaiono altresì compromessi nei DD, come dimostrato dalla prevalenza del cronotipo serotino22&nbsp;e da un pattern di ridotta attività fisica, secondo quanto misurato da studi che utilizzano actigrafi e accelerometri.12,23&nbsp;Ridotti livelli di attività diurna possono manifestarsi anche sottoforma di riduzione dell’appetito, anergia, mancanza di interesse e motivazione nei confronti di gran parte delle attività quotidiane. L’umore stesso può subire variazioni con andamento circadiano, tipicamente presentando connotati di deflessione più marcati durante le prime ore del giorno con miglioramento nelle ore serali, per quanto non sia infrequente anche un andamento inverso delle suddette oscillazioni.24,25
Un’entità clinica nel contesto della quale diviene ancor più evidente la correlazione tra alterazioni dei ritmi circadiani e sintomatologia depressiva è il disturbo depressivo stagionale (Seasonal Affective Disorder, SAD), che vede i sintomi depressivi manifestarsi prevalentemente durante i mesi autunnali e invernali. La presentazione del SAD, nella cui patogenesi i disturbi dei ritmi circadiani assumono un ruolo determinante,26&nbsp;include una compagine di alterazioni dei ritmi biologici che in parte ricalcano quelli già descritti in precedenza, potendo tuttavia assumere un ruolo ancor più preponderante. In particolare, nel contesto del SAD i sintomi depressivi quali umore deflesso, anedonia e anergia si associano a ipersonnia, iperfagia con craving per i carboidrati e conseguente significativo aumento di peso e frequente riduzione dell’attività diurna.27
Sulla base di quanto esposto finora, la corretta valutazione delle alterazioni dei ritmi circadiani nei DD risulta imprescindibile. Scale cliniche auto- ed etero-somministrate sono state sviluppate con tale finalità, quali ad esempio Morningness-Eveningness Questionnaire (MEQ)28&nbsp;e Biological Rhythms Interview of Assessment in Neuropsychiatry (BRIAN),29&nbsp;che rappresentano strumenti facilmente accessibili e adatti a ripetute valutazioni longitudinali. L’utilizzo di marcatori dei ritmi biologici, come ad esempio la misurazione delle fluttuazioni circadiane dei valori di cortisolo e melatonina, è stato proposto come misura oggettiva della disregolazione dei ritmi circadiani nei DD.30,31&nbsp;Indagini di natura elettrofisiologica, come la polisonnografia, possono fornire informazioni di rilievo in merito ai disturbi del sonno, essendo tuttavia scarsamente fruibili su larga scala e non permettendo un monitoraggio diurno.20&nbsp;Di più largo impiego potrebbero potenzialmente rivelarsi le tecniche di actigrafia, che utilizzano device non invasivi (ad esempio, orologi da polso) in grado di rilevare i livelli di attività circadiana e discriminare pattern alterati che caratterizzano i soggetti affetti da DD rispetto a controlli sani.32
Nonostante le linee guida per la terapia dei DD non prevedano attualmente l’utilizzo di terapie che abbiano come target specifico le alterazioni dei ritmi circadiani,33&nbsp;evidenze di letteratura depongono a favore dell’utilizzo di interventi cronobiologici non farmacologici, come la bright light therapy, per il trattamento della sintomatologia legata a tali alterazioni.26,34&nbsp;L’implementazione di interventi psicoterapici focalizzati sui disturbi dei ritmi circadiani, in particolare alcune tipologie di terapia cognitivo-comportamentale e la terapia interpersonale e dei ritmi sociali hanno dimostrato efficacia non solo nel ristabilire i pattern comportamentali alterati a seguito di tali disturbi, ma anche nel ridurre la gravità globale della sintomatologia depressiva e nel ripristinare un adeguato funzionamento sociale.14,35In considerazione della maggiore efficacia che tali interventi presentano su soggetti con una maggior disfunzione dei ritmi circadiani,36la corretta identificazione di queste alterazioni nel contesto della presentazione clinica dei DD può permettere di targetizzare al meglio il trattamento, determinando migliori outcome funzionali.

Pubblicato il 04/11/2020 -&nbsp;<a href="http://www.brainlabmagazine.it/cont/focus-depressione-archivio/446/alterazioni-ritmi-circadiani-disturbi-depressivi.asp?pgg=1" target="_blank">http://www.brainlabmagazine.it/cont/focus-depressione-archivio/446/alterazioni-ritmi-circadiani-disturbi-depressivi.asp?pgg=1</a>

Le alterazioni dei ritmi circadiani nei disturbi depressivi

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